Covid-19: le 8 cose che ancora non sappiamo

Terapie, sintomi, immunità, origine: alcune delle domande ancora aperte e delle incertezze epidemiologiche sulla COVID-19, la malattia da coronavirus.

Da febbraio non parliamo praticamente d'altro che di coronavirus. Ormai sono molte le caratteristiche del patogeno che abbiamo imparato a conoscere, in questo inaspettato capitolo di Storia. Ma altrettante sono le domande che restano aperte, e che troveranno risposta soltanto a emergenza conclusa. Abbiamo provato a riassumere alcuni di questi dilemmi irrisolti qui sotto. Ecco che cosa ancora non sappiamo sulla COVID-19.

1. Quali farmaci funzionano e quali no.

In attesa di un vaccino contro la COVID-19, ci sono grandi aspettative per le sperimentazioni di diversi farmaci antivirali già in commercio che sono stati precettati nella lotta al coronavirus. I test più promettenti, appoggiati dall'OMS con il trial clinico globale Solidarity, riguardano il farmaco anti Ebola Redemsivir, i cui primi risultati sono attesi per la metà di aprile; ma anche gli antimalarici clorochina e idrossiclorochina, e i farmaci contro l'HIV Ritonavir e Lopinavir (da soli o in combinazione con interferone beta). Altri farmaci, come il Tocilizumab, normalmente usato contro l'artrite reumatoide, stanno dando risultati promettenti non come antivirali, ma per lenire i sintomi dovuti alle tempeste di citochine (la risposta immunitaria esagerata dell'organismo all'attacco virale), come la polmonite interstiziale che colpisce i pazienti con COVID-19.

Intanto, piattaforme virtuali open source stanno testando milioni di combinazioni di molecole per inviduare le più promettenti contro la COVID-19 e farle approdare alla sperimentazione in vitro. Mentre negli ospedali si sperimentano con buoni risultati le infusioni, nei pazienti più gravi, di plasma estratto dal sangue dei guariti o dei convalescenti.

2. Perché si è diffuso così tanto in Lombardia.

Alcune ragioni epidemiologiche sono forse da cercare nell'alta densità abitativa e nella vocazione industriale della regione; altre, oggetto delle inchieste giornalistiche di questi giorni, nelle chiusure ritardate di alcune zone ad alta produttività (poi divenute epicentro dell'epidemia, come alcuni comuni della Bergamasca) e nella cattiva gestione di pazienti e personale tra ospedali e RSA. Nell'emergenza si è poi scelta la strategia di moltiplicare le terapie intensive a scapito della medicina sul territorio, scelta che condizionato il numero di tamponi sui malati alla comparsa dei primi sintomi, ritenuto insufficiente. Di conseguenza, troppi sono arrivati in ospedale in una fase già critica della malattia, e da malati hanno contagiato i familiari.

 

In molti hanno parlato della partita Atalanta-Valencia del 19 febbraio a San Siro come "bomba biologica" che ha messo a stretto contatto 40 mila persone, dando modo al virus di circolare liberamente tra gli spalti. Da alcune settimane ci si chiede, infine, se l'inquinamento atmosferico sulla Pianura Padana possa aver favorito la diffusione dell'infezione in Lombardia ed Emilia Romagna.


3. Perché colpisce in forme così diverse.

All'inizio si parlava quasi esclusivamente delle persone anziane e con malattie pregresse, per identificare i più a rischio. Oggi sappiamo che questa fascia è la più a rischio, ma che sempre più spesso in ospedale arrivano quarantenni e cinquantenni, e che in Europa si sono verificati decessi anche tra adolescenti e bambini. Non è chiaro se vi siano i fattori, oltre ad età e condizioni di salute, che predispongano a una forma più grave di COVID-19; non sappiamo se la dose infettiva con cui ciascuno entra in contatto abbia qualche effetto nella gravità dei successivi sintomi, né se contino di più il tempo di esposizione al contagio o il numero di persone positive con le quali si è entrati in contatto. Le donne sembrerebbero incorrere meno frequentemente degli uomini sia nel contagio, sia in forme più gravi della malattia, ma la ragione non è ancora nota.